“Dal ricatto russo al vincolo americano: il GNL e la nuova geopolitica del potere”

“Nella rubrica Fatti e Potere esploriamo come il gas liquefatto, tra estrazione complessa e rotte atlantiche, stia ridefinendo equilibri energetici e strategici del continente.”

LIVORNO – Il settembre energetico si è aperto con una fotografia che riassume perfettamente l’ambiguità del nostro tempo: da un lato il ministro italiano Gilberto Pichetto Fratin che stringe la mano al Segretario all’Energia statunitense Doug Burgum a Roma, sorrisi e comunicati sull’amicizia transatlantica; dall’altro, nei corridoi di Bruxelles, think tank e osservatori che parlano apertamente di “ricatto geopolitico”, evocando la lunga lista di impegni contrattuali che l’Unione europea si appresta a sottoscrivere con Washington. Il gas naturale liquefatto (GNL) resta al centro di questo intreccio di promesse e sospetti, di cooperazione e dipendenza.

L’accordo annunciato l’8 settembre prevede un rafforzamento dei legami infrastrutturali: gli Stati Uniti garantirebbero forniture più stabili di GNL verso l’Europa, mentre l’Italia metterebbe sul tavolo i propri porti e rigassificatori, da Piombino a Ravenna fino alle prospettive di Gioia Tauro e Porto Empedocle. Una narrazione che richiama il Piano Mattei del Mare, ma che in realtà mostra l’altra faccia della medaglia: l’Europa si libera dalla Russia, ma lega il proprio futuro all’America. Non si tratta più solo di energia, ma di un patto politico che condiziona anche le relazioni commerciali, i dazi, la diplomazia industriale.

Gli Stati Uniti, forti della rivoluzione dello shale gas (metano intrappolato in rocce argillose, estratto con fratturazione idraulica: tecnologia rivoluzionaria, costosa e contestata, che ha trasformato gli Stati Uniti in potenza energetica globale ), hanno trasformato il GNL in uno strumento di proiezione di potere, una diplomazia del freddo che accompagna le metaniere come moderne caravelle. L’Europa, che da Mosca pretendeva sconti e stabilità, ora deve accettare le condizioni di Washington: contratti a lungo termine, prezzi legati all’indice Henry Hub e, in filigrana, la pressione di un legame politico che diventa obbligo commerciale. Chi parla di “ricatto” non lo fa in senso metaforico, ma con la lucidità di chi intravede il rischio di sostituire una dipendenza con un’altra.

Stoccaggi pieni, sicurezza apparente

Le parole di Pichetto Fratin, in questi giorni, hanno oscillato tra orgoglio e prudenza. Il ministro ha sottolineato che i livelli di stoccaggio del gas in Italia e in Europa sono buoni, vicini al target del 90% fissato da Bruxelles per affrontare l’inverno. Una notizia che, sulla carta, dovrebbe rassicurare i mercati e i cittadini. I depositi pieni evocano la sicurezza di un inverno senza blackout, senza emergenze improvvise, senza il fantasma delle famiglie lasciate al freddo.

Ma la realtà è più sfumata. Gli stoccaggi, infatti, non significano autosufficienza energetica. Sono un cuscinetto temporaneo, un margine che garantisce alcune settimane o mesi di relativa stabilità. Dietro quei volumi liquefatti e rigassificati restano intatti i contratti di approvvigionamento, i costi della logistica, i nodi della dipendenza geopolitica. In altre parole, l’Europa non produce da sola la propria energia: semplicemente, la conserva con più attenzione. È un po’ come vantarsi di avere la dispensa piena, dimenticando però che la spesa dipende dal supermercato di un vicino che controlla prezzi e forniture.

Ed è qui che emerge la contraddizione di fondo: da un lato si celebra il successo di aver raggiunto la soglia di stoccaggio, dall’altro si tace sul fatto che buona parte di quel gas arriva dagli Stati Uniti, a prezzi più alti rispetto al passato. Se Mosca esercitava un ricatto politico, Washington esercita un ricatto commerciale. Il consumatore europeo, alla fine, paga la differenza, mentre la retorica politica parla di indipendenza e autosufficienza.

In realtà, l’Europa non ha raggiunto l’autosufficienza energetica: ha solo diversificato i fornitori. Un passo necessario, certo, ma che non risolve il problema strutturale. L’indipendenza energetica, nel senso pieno, significherebbe sviluppare rinnovabili, accumuli, idrogeno e reti intelligenti. Tutti capitoli ancora in ritardo, ostaggio di burocrazie, veti locali e interessi incrociati.

Il decreto energia e la trappola dei prezzi

L’altro fronte caldo è quello del mercato interno. In questi giorni, il governo italiano lavora a un decreto energia che intende intervenire sul cosiddetto “gap di prezzo” tra il gas all’ingrosso italiano (PSV) e l’indice europeo TTF di Amsterdam. Una differenza di circa due euro a megawattora che, tradotta in miliardi di metri cubi, significa costi aggiuntivi enormi per imprese e famiglie.

La proposta, evocata da Pichetto Fratin, sarebbe quella di azzerare questa forbice intervenendo sui volumi importati dalla Svizzera attraverso Passo Gries, ripartendo i costi sugli altri importatori. Una misura tecnica che nasconde, però, una questione politica: l’Italia paga il gas più caro d’Europa non solo per ragioni di mercato, ma per debolezze strutturali del proprio sistema logistico ed energetico. Porti incompiuti, rigassificatori contestati, interconnessioni limitate.

È la fotografia di un Paese che non riesce a capitalizzare la propria posizione geografica. Potremmo essere il grande hub del Mediterraneo, ma ci ritroviamo a inseguire soluzioni tampone per colmare differenze di prezzo. È il paradosso italiano: avere il mare come risorsa e viverlo come vincolo, avere porti che potrebbero essere nodi globali e trasformarli in spazi di conflitto locale. Il decreto energia, insomma, non è solo un atto tecnico: è il simbolo di un’Italia che naviga tra opportunità e limiti, tra la promessa del ruolo strategico e la realtà delle fragilità strutturali.

Un’Europa sospesa tra passato e futuro

Il quadro complessivo ci restituisce un’Europa sospesa. Da un lato i segnali positivi: stoccaggi pieni, diversificazione riuscita, riduzione drastica della dipendenza dal gas russo. Dall’altro i segnali d’allarme: contratti di lungo periodo con Washington, prezzi più alti, lentezza nel costruire una vera strategia energetica verde. È un equilibrio precario che rischia di diventare trappola.

Il GNL, nato come strumento di transizione, rischia di trasformarsi in infrastruttura permanente, un lock-in fossile che ipoteca decenni di politiche energetiche. Gli Stati Uniti, con la loro capacità produttiva e la loro forza diplomatica, hanno colto l’occasione di una crisi europea per trasformarla in opportunità nazionale. L’Europa, ancora una volta, appare come consumatore e non come produttore, come importatore e non come innovatore.

La vera autosufficienza energetica resta lontana. Non si costruisce con le metaniere, ma con i pannelli solari, le pale eoliche, i sistemi di accumulo, l’idrogeno verde. È la differenza tra riempire un deposito e costruire un sistema. È la distanza che separa la gestione dell’emergenza dalla visione di lungo periodo.

Ed è su questa distanza che si gioca il futuro politico dell’Unione. Perché l’energia non è solo questione di bollette, ma di potere. Chi controlla le fonti, controlla le scelte. Chi dipende dai fornitori, dipende anche dalle condizioni che essi impongono. Non è un caso che ogni summit energetico europeo finisca per intrecciarsi con la politica estera, con la difesa, con le trattative commerciali.

La sfida, allora, non è semplicemente quella di riempire gli stoccaggi o ridurre i gap di prezzo. È quella di trasformare l’energia in leva di sovranità. Un compito che richiede coraggio politico, capacità industriale e un orizzonte culturale che vada oltre il prossimo inverno.

Il GNL è diventato simbolo di questa stagione: promesso come soluzione, rivelato come compromesso. L’Europa esce dal ricatto russo, ma cade nella rete americana. L’Italia riempie i depositi, ma non costruisce autonomia. I mercati guardano agli indici, mentre la politica annuncia decreti che rincorrono differenze di prezzo.

La visione del Messaggero Marittimo

visione del messaggeroIn questa geografia del gas liquido, il Mediterraneo torna crocevia, ma la partita resta aperta: saremo protagonisti o spettatori? L’energia, più che mai, non è solo una questione di molecole, ma di potere.

Il gas naturale liquefatto è diventato, in questa fase storica, il simbolo stesso delle contraddizioni europee. Promesso come la soluzione definitiva per affrancarsi dal ricatto energetico di Mosca, si sta rivelando un compromesso fragile che rischia di incatenare l’Europa a una nuova dipendenza, quella americana. È il paradosso dei nostri tempi: scappiamo dalla gabbia russa per ritrovarci legati a un’altra catena, più dorata, più presentabile, ma pur sempre catena.

Il Mediterraneo, mare antico di traffici e conflitti, torna a essere il crocevia strategico del GNL. Le metaniere solcano le sue rotte come moderne carovane del potere, portando nelle stive non solo molecole liquefatte a -162 gradi, ma equilibri politici, condizionamenti commerciali, strategie militari. Dietro ogni arrivo di nave, dietro ogni terminale rigassificatore, non c’è solo ingegneria, ma geopolitica. È qui che l’Europa si gioca la propria autonomia strategica, e l’Italia la propria ambizione di hub energetico.

Eppure, il GNL resta controverso fin dalle origini. L’estrazione del gas naturale avviene spesso in contesti delicati: giacimenti offshore in acque contese, pozzi onshore in paesi instabili. Una volta estratto, il gas deve essere liquefatto: processo energivoro, che consuma parte significativa della stessa risorsa che dovrebbe consegnare. Durante la liquefazione e il trasporto si registrano perdite di metano, gas serra molto più potente della CO₂. È qui che il bilancio ambientale si incrina: ciò che viene presentato come “combustibile ponte” rischia di essere solo un vicolo cieco, un diversivo che rallenta la transizione ecologica.

La controversia prosegue lungo la catena logistica. Le infrastrutture necessarie – rigassificatori, depositi, metaniere – richiedono miliardi di investimenti e contratti ventennali. Ciò significa che l’Europa, pur proclamando l’obiettivo delle rinnovabili, si lega mani e piedi a infrastrutture fossili che dovranno essere ammortizzate nel tempo. In altre parole, la transizione rischia di trasformarsi in “lock-in”: più che un ponte, una strada obbligata.

Sul piano geopolitico, il quadro è ancora più delicato. La Russia, che per decenni ha esercitato un potere attraverso i gasdotti, è stata sostituita dagli Stati Uniti, oggi primo esportatore mondiale di GNL. Washington ha trasformato il gas liquido in arma diplomatica: forniture in cambio di fedeltà politica, energia come collaterale dei rapporti commerciali e dei dazi. Non è un caso che molti analisti parlino di “ricatto atlantico”: l’Europa, per ottenere condizioni favorevoli sui mercati globali e protezione strategica, deve garantire acquisti per centinaia di miliardi di dollari. Non è libero mercato, ma mercato condizionato.

In questo contesto, l’Italia si muove con ambizione ma anche con fragilità. I porti di Piombino, Ravenna, Trieste e Gioia Tauro sono chiamati a diventare nodi energetici, ma la politica nazionale fatica a trasformare questa opportunità in reale potere. Stoccaggi pieni non significano autosufficienza; decreti per colmare i gap di prezzo non equivalgono a sovranità. Il Mediterraneo torna ad essere mare strategico, ma la domanda resta: saremo protagonisti di questa partita o semplici spettatori?

Il GNL, oggi, è il campo di battaglia su cui si misura il futuro europeo. Non è solo una questione di molecole, ma di potere.

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Tags: Economia, Editoriali, Energia, Geopolitica, Politica

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